Luigi Manzione

Tutto questo paesaggio periferico, immerso nel frastuono dei veicoli che sembravano essersi riuniti qui da tutte le direzioni del mondo, gli appariva confortevole come quel paese di confine dei sogni, dove uno poteva sostare, a differenza di qualsiasi altra parte nell’interno del paese. Sentiva il desiderio di dimorare in una di quelle baracche sparse, con un giardino posteriore che dava direttamente sulla steppa, oppure lì sopra il deposito, dove un paralume appena acceso, diffondeva un riflesso giallo. Matite; un tavolo; una sedia. Dalle zone periferiche emanavano freschezza e forza, come in una perenne epoca di pionieri. (Peter Handke, Pomeriggio di uno scrittore, Parma, Guanda, 1987, p. 52)

Alla moltitudine che vive nelle agglomerazioni, la periferia appare forse un habitat consueto e senza tempo. In realtà ha una precisa origine e ragione storica: essa nasce paradossalmente come occasione di speranza, progetto utopico per l’”uomo liberato” degli architetti moderni. Nel tempo, utopia, liberazione, speranza si sono convertite nel loro opposto, e nessun piano, nessuna teoria sono stati realmente in grado di invertire questa fatale tendenza. Dopo aver attraversato un destino di dannazione e di abbandono, la periferia richiede – di nuovo – un progetto di riscatto. Un progetto concreto, non più ideologico o illusorio: la ricostruzione di “utopie concrete” a partire dalle situazioni locali e determinate.

 

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Ripensare la periferia

Che cos’è la periferia oggi? È individuabile un insieme di caratteri nelle diverse situazioni geografiche? Nella molteplicità delle variabili sociali, economiche, storiche, culturali, ambientali, la periferia che ci interroga maggiormente ha poco più di mezzo secolo, e lo dimostra in pieno. È una realtà dai confini incerti, di cui può darsi solo una definizione non univoca. Qui si rileva in primo luogo l’eclissi progressiva della città-palinsesto e la rarefazione delle gerarchie di spazi definiti nella durata, in parallelo all’emergere di nuove forme di centralità. La concentrazione delle qualità non è più criterio esclusivo per definire la città. Indicatore e fattore di urbanità non è più, di per sé, il centro fisico e geometrico dell’insediamento, quanto ciò che è tra i centri: margini, tragitti, spazi intermedi. Sembra dissolversi un tipo di centralità monadica, legata alla singola città, così come diviene sempre più evidente la confederazione, spesso spontanea, di centri, il saldarsi di insediamenti secondo forme e direzioni variabili, lungo i segmenti di raccordo della rete dell’urbanizzato, gli assi delle infrastrutture, del commercio e della residenza.

Senza riproporre una logica di opposizione tra centro e periferia, si può dire che quest’ultima si caratterizza non solo per la presenza di edilizia residenziale, più o meno dispersa, ma anche di infrastrutture e manufatti che rappresentano in un certo senso l’equivalente del monumento per la città storica: catalizzatori di paesaggi, eventi, modi inediti di socialità. Oltre la città, i contorni della continuità si sfocano; le relazioni di leggibilità tra costruito e tessuto si decompongono. Queste relazioni vanno ora ritrovate e rielaborate nel singolo caso, nel singolo intervento. È questo forse il compito principale del progetto urbano contemporaneo, il punto di partenza per il suo rinnovamento e per la ridefinizione dei temi e degli strumenti disciplinari.

Intesa come entità irriducibilmente altra dalla città, la periferia da speranza (nel secondo dopoguerra) si è mutata in disillusione (al volgere del millennio), in luogo della negazione. Pur nella consapevolezza di un’impresa tutt’altro che facile, ritornare a ragionare sul progetto della periferia, considerata come città esistente, da reinventare come la città consolidata a partire dalle tracce della sua sedimentazione, significa ribaltare un punto di vista oppositivo (o esclusivo) tra i due termini “città” e “periferia”. L’osservazione delle periferie produce, del resto, descrizioni in parte diverse da quelle dello scorso ventennio. Descrizioni meno retoriche e più asciutte, nelle quali si riposizionano criticamente alcune mitologie: la dispersione senza limiti, il transito incessante, l’atopia, etc. Le periferie si tramutano in superperiferie; i non-luoghi diventano superluoghi, aggregazioni complesse di “luoghi in cui la società lascia il suo inprint”.[1] Oggi la periferia è la città: la città della maggioranza degli abitanti, in cui si sovrappongono i segni di nuove specie di spazi (pubblici o privati, esclusivi o popolari, eterogenei, mercificati). Ma è anche il luogo in cui si rappresenta plasticamente la progressiva crescita delle disuguaglianze, dove si materializzano le differenze tra la “città dei ricchi” e la “città dei poveri”.[2]

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Ripensare la periferia presuppone la presa d’atto di una mutazione che non riguarda più solo la materialità dei luoghi, ma la cultura degli individui e dei cittadini. In questo senso, la tradizionale opposizione città-periferia diventa poco credibile, tanto sul piano dei discorsi quanto su quello delle pratiche. Le periferie si connotano sempre meno come entità geografiche – in virtù della loro eccentricità – e sempre più come qualcosa avente a che fare con l’identità di moltitudini, per le quali diventano nuovi luoghi “centrali”, più che di comunità. Luoghi la cui biografia appare tutta da rileggere attraverso le vicissitudini che ne hanno radicalmente mutato i caratteri nel tempo; luoghi sospesi, in attesa di accogliere qualità e significati per mezzo di un progetto di trasformazione.

Ed è anche un problema di riconoscibilità di situazioni e di processi a prima vista privi di logica e di ordine. Appena varcati i limiti della città consolidata ritroviamo infatti un arcipelago disseminato di “isole concrete”, regolato da apparati normativi (nazionali, locali, di settore, etc.) e, nello stesso tempo, dominato da una logica individualistica di tipo NIMBY, quella della casa unifamiliare con piccolo giardino o del condominio sempre più “securizzato” e autosufficiente. Una logica spesso assecondata, quando non alimentata, dai governi e dalle amministrazioni locali. In questa prospettiva ritornare a osservare la periferia è un atto difficile, nonostante il patrimonio accumulato negli ultimi decenni del Novecento. Il problema di fondo riguarda proprio la ricerca (teorica e progettuale). Sappiamo che in quella che una volta era identificata come una distesa senza nome sono avvenute e stanno avvenendo mutazioni radicali. Sappiamo dove cercare, ma non sappiamo ancora cosa cercare.

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Comunità, moltitudine

In quello che fu il mondo occidentale, lo sviluppo delle periferie si è accompagnato alla riconfigurazione della città tradizionale e all’eclissi della nozione di comunità. Che cosa è avvenuto in Italia? In un mondo globalizzato è possibile rintracciarne le linee di specificità? Tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento si instaura una duratura frattura nella continuità della città consolidata: in Italia, dove l’armatura di nuclei storici comprende insediamenti di ogni dimensione (dalle metropoli come Milano, Roma e Napoli, ai medi e piccoli centri), una nuova rete di formazioni frammentarie – comequella che Arnaldo Bagnasco denomina la “Terza Italia”, o la metropoli diffusa veneziana o adriatica, o ancora il continuum largamente abusivo tra Napoli e Salerno – si sovrappone ad un preesistente decentramento dell’habitat. Qui, come altrove, il dispiegarsi di nuove logiche insediative fa “saltare” le regole millenarie della costruzione della città e, insieme, l’illusione che sia ancora possibile esportare nella periferia il modello della città, ricrearvi in maniera puramente analogica l’”effetto città”.

Gli universi contemporanei dell’architettura, della città e della periferia sono ormai molto distanti dal tempo in cui Luigi Ghirri e Gianni Celati[3] ci accompagnavano alla scoperta del “paesaggio italiano”: nelle dinamiche, nelle concettualizzazioni, negli scenari, un nesso è ancora individuabile se oggi – nell’epoca della non città o dell’anticittà[4] – i meccanismi di formazione e riproduzione del costruito, sempre meno attribuibili a professionalità identificabili e qualificate, restano sostanzialmente omogenei (nei tipi, nelle forme, negli spazi), anche al di là dei luoghi specifici della geografia peninsulare. La diffusione sotto i nostri occhi di manufatti governati, almeno in apparenza, da un principio di anarchia – tentativi individualistici di convertire spazi in luoghi, di aggregare pêle-mêle dimensioni private e pubbliche, di far convivere attività, soggetti, potenzialità differenti e spesso incompatibili – è un processo casuale o sottintende, invece, regole più o meno formalizzate, più o meno localmente determinate?

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Difficile rispondere, trovandosi di fronte una metropoli (diffusa) senza luoghi, ma anche una metropoli senza architettura che, nel Mezzogiorno, ha peraltro una tradizione di più lunga durata. La periferia meridionale appare sempre più monofunzionalmente residenziale, senza verde pubblico, senza spazi di aggregazione per gli abitanti; dove lo spazio pubblico è una nozione dimenticata, le urbanizzazioni secondarie (in certi casi anche le primarie) carenti, i servizi e le attrezzature vaghi ricordi di epoche lontane. Le modalità di occupazione del suolo, i tipi edilizi, le pratiche abitative, la frequentazione-appropriazione dello spazio pubblico appaiono qui arbitrari e aleatori, accostati in vis-à-vis talvolta sconcertanti. Il rapporto classico tipologia-morfologia si inverte: mentre nella città storica è la dimensione morfologica a stabilire le regole di costituzione della tipologia, nella città diffusa si osserva, al contrario, una riduzione della complessità morfologica a vantaggio della ricchezza delle soluzioni tipologiche (dei moduli di aggregazione, ripetizione, serialità/eccezione). Soluzioni spesso ottenute mediante processi di autocostruzione in situazioni di precarietà e abusivismo diffusi.

Come spesso accade nel Mezzogiorno, questa ricchezza è il risultato della elusione sistematica di apparati normativi non di rado ridondanti e ottusi, inevitabilmente in collisione con una “società di individui”, ovunque consolidata. È in questo contesto che va collocata la “fine di qualsiasi regola urbanistica” che caratterizza la città del Sud, a partire da Napoli.[5] In tali condizioni, la descrizione della città diviene un esercizio complesso, non più riassumibile nella sequenza camminare-vedere-rilevare. Occorre andare più in profondità, “entrare in contatto con le pratiche sociali così come vengono vissute e raccontate dagli stessi protagonisti, coglierne le differenti temporalità, ricostruire microstorie, riconoscere immagini e miti diffusi, annotare ciò che ai diversi soggetti appare come un impedimento al completo dispiegarsi dei loro progetti individuali e collettivi”.[6] Occorre spostare lo sguardo sulle pratiche quotidiane, sulle temporalità (ripetitive e differenti), sulle microstorie dei luoghi e degli abitanti. Una ricerca sulla periferia italiana in questa prospettiva è ancora tutta da fare.

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Proprio osservando le cose da questo punto di vista, ci si accorge che, nel proliferare dei processi di individuazione, omologazione/differenziazione e nel dominio della comunicazione immateriale e istantanea, il tema della comunità e delle relazioni interpersonali, per quanto indebolito, non può dirsi azzerato. La socializzazione nei quartieri e le relazioni tradizionali di vicinato sono pratiche ormai in estinzione, è vero, ma ciò non significa che la città sia scomparsa. Essa si ricompone secondo modalità e scale diverse, di cui è difficile prevedere gli sviluppi. Si può allora riconcettualizzare il rapporto tra (rete) globale e (esistenza) locale in termini di spazio fisico e di relazioni interpersonali? Nella grande crisi che ci attraversa, l’intensità delle migrazioni, l’accoglienza dello “straniero” in un mosaico etnico e culturale che si proietta sul territorio, generano dinamiche che pongono un’esigenza fondamentale di riconoscimento. La questione dell’identità, della percezione che gli individui e i gruppi hanno di se stessi, sostanzia così – in un’epoca sempre più segnata dalla intolleranza – un’idea di società multietnica in cui sia possibile un arricchimento reciproco, a condizione che ciascuna comunità accetti di relativizzare – ossia di mettere a contatto con l’altro – i propri modi di vita e la propria visione del mondo.[7]

Rammendo o visione d’insieme?

Quali sono i modi di una possibile ricomposizione e, di conseguenza, le direzioni agibili di un progetto per le periferie? Si tratta di un progetto politico – sebbene molto diverso da quello perseguito negli anni ’60-’70 – prima che puramente disciplinare. È forse per questa ragione che quasi nessuno finora si è arrischiato a disegnare ipotesi e scenari concreti. Lo ha fatto recentemente Renzo Piano in un articolo pubblicato sul Domenicale del Sole-24 Ore.[8] Se le periferie sono la “città del futuro”, la prospettiva del “rammendo” disegnata da Piano, per quanto “gigantesca”, appare in parte limitativa e rischia di essere ineffettuale. Le “ricette” proposte per le periferie configurano infatti un progetto senza politica, la cui attuabilità risulta tutta da verificare. Il contenimento della crescita e dell’espansione periferica è un presupposto necessario, ma non sufficiente. Oltre che nella creazione di spazi pubblici lontano dal centro, nella dotazione di verde attrezzato, nell’offerta di trasporto pubblico efficiente come alternativa credibile all’automobile, il problema risiede nell’equilibrio, sempre precario, tra lo stock di abitazioni esistenti, utilizzate e vuote. Da mezzo secolo la cultura urbanistica italiana s’interroga su questo nodo fondamentale (dai tempi della rivista Città-Classe), e più in generale sul tema dello “spreco”, senza trovare soluzioni reali ad un ovvio meccanismo in base al quale per rendere disponibili alloggi o si opera sull’accesso alle abitazioni sfitte o se ne costruiscono di nuove laddove è possibile: ossia in periferia, dove oltre le case non c’è nulla, o molto poco.

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Costruire sul costruito, densificarlo o diradarlo, riconvertirlo, (ri)naturalizzarlo sono operazioni possibili e utili. Operazioni non derivanti però da una expertise puramente tecnica, ma scelte di campo che presuppongono un progetto di società. Si è discusso a lungo sull’opposizione centralità-dispersione, sul modello individuale (che i francesi chiamano “pavillonaire”)  contrapposto alla residenza collettiva, e sui relativi caratteri culturali e antropologici, sui vantaggi e sui costi di tali opzioni. La costruzione nel tempo della periferia mostra l’evoluzione dei discorsi e delle pratiche (anche di quelle quotidiane degli abitanti), riflettendo le grandi trasformazioni della società e del territorio. Quando si parla di “microchirurgia” per le periferie, si guarda allora solo ad un certo tipo di periferia – quella progettata in opposizione alla città tra gli anni ’50 e ’70 – senza tener conto della disseminazione insediativa, largamente spontanea e anonima, del successivo trentennio, che rappresenta oggi una parte cospicua del territorio oltre la città compatta. Una pratica del rammendo ha senso nelle aree di margine, a contatto con la “città di pietra”. Altrove appare poco perseguibile, specie dove non esistono tessuti da ricucire, ma piuttosto reti a maglie larghe punteggiate da oggetti, grandi e piccoli, e da spazi, più o meno significativi e condivisi.

Se i processi insediativi hanno condotto alla devastazione e alla depredazione (economica, politica, ambientale) di quanto circonda i tessuti urbani storici – in molti casi, nell’Italia meridionale, alla radicale manomissione degli stessi centri storici – è pur vero che l’emergere di nuovi bisogni nel campo della residenza e dello spazio pubblico, in coincidenza con l’acuirsi delle differenze e delle disuguaglianze, non permette più di ridurre la periferia ad una questione di degrado, da affrontare e risolvere per via puramente disciplinare. In questa ottica, quella del rammendo appare una nuova “retorica”.[9] Le idee su cui si basa delineano una formula che, come si è detto, è superata dalle dinamiche recenti, succedutesi alle forme classiche dell’urbanizzazione e della metropolizzazione. In Italia siamo forse ancora lontani dallo spettro della “slumizzazione” evocato da Mike Davis[10]; non è tuttavia inutile collocare i processi in atto nel contesto della crisi globale (economica e di paradigmi), delle migrazioni, delle mutazioni nelle forme e nelle temporalità del lavoro e del non-lavoro, etc.

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Così contestualizzato, il problema appare quindi di ordine politico, prim’ancora che tecnico. La “medicalizzazione” del ruolo dell’architetto evocata da Renzo Piano non convince del tutto se si ripercorrono le mitologie del recente passato: la supposta inutilità del welfare, la sicurezza, la sostenibilità, etc. È vero, la contrapposizione centro-periferia non ha più senso. Eppure la nozione di centro, con il relativo valore economico e ideologico (nelle rappresentazioni dei cittadini, degli amministratori, degli operatori), è talmente consolidata da non lasciare intravedere, in tempi ragionevoli, equilibri possibili in virtù di azioni di corretta amministrazione, stante peraltro la delirante complessità del quadro normativo e delle connesse procedure burocratiche. Occorrerebbe mettere mano a una radicale riforma dell’ordinamento urbanistico nazionale e locale, puntare su pochi strumenti normativi e di pianificazione, anziché continuare a tenere in piedi un sistema che ha fatto della farraginosità il viatico dell’inefficienza e della paralisi.

Se nell’immediato non si può contare sulla realizzabilità di importanti standard di attrezzature, spazi aperti e verdi, né illudersi che sia possibile soddisfare i nuovi bisogni abitativi mediante politiche esclusivamente pubbliche, si può almeno trarre profitto, con intelligenza e senso critico, dalle occasioni che, per quanto limitate, possono presentarsi nelle periferie, introducendo “qualità” e usi, promuovendo relazioni e interazioni, stimolando “partecipazione”, producendo più equità e benessere per tutti. Per quanto detto finora, ciò non significa necessariamente “traslare” la città in periferia, nel tentativo di esportarvi l’”effetto città”, ma riconfigurare gli spazi periferici a partire dal loro essere segmenti di città, apparentemente senza qualità ma dotati implicitamente di caratteri e di attività.

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L’ipotesi del “rammendo” si forma, in conclusione, in un contesto di sostanziale sottovalutazione delle implicazioni socioeconomiche e politiche sottese alla grande questione delle periferie. È un approccio da architetti che, per non diventare tecnocrati, si propongono come medici del costruito, nei casi peggiori come tecnici del maquillage, del miglioramento locale tutto giocato in chiave microambientale e di ricostituzione figurativa di contesti degradati e spesso violentati. Tutto ciò evita però accuratamente di operare sulle contraddizioni, lasciandole del tutto irrisolte. Non si capisce come si possa rammendare un paesaggio costruito che nel tempo si è così dilatato, nelle proporzioni e nella presenza, da diventare “normale”, quasi abitudinario, per la maggior parte dei cittadini. Credere che la “tecnica” possa risolvere, da sola, i problemi di cui ci occupiamo appare largamente illusorio, dal momento che nel loro insieme tali questioni delineano un segmento essenziale della “nuova questione urbana” del XXI secolo.

Ci si lamenta spesso del fatto che la stampa generalista non interviene in modo critico quando si affronta il discorso della periferia. Il problema è che manca in Italia una cultura diffusa e una coscienza civica di ciò che è – o potrà essere – la città e la periferia. L’informazione può contribuire a formare questa consapevolezza, ma non è un compito che possa essere ragionevolmente assegnato solo ad essa. Il problema riguarda in primis la riflessione disciplinare e la discussione politica, che con tale riflessione dovrebbe mantenere (o riaprire) un dialogo come è stato negli anni ’50-’60 del Novecento. Non esiste, o non esiste più, in Italia un’elaborazione teorica sulla periferia, né l’interesse da parte della classe politica ad accostarsi a temi difficili, e tutto sommato pericolosi, per chi deve gestire il territorio e i poteri ad esso connessi. Su questa assenza occorre riflettere, e da qui ripartire per costruire un progetto per la periferia considerata, al Nord come al Sud, come città esistente e da reinventare a partire dalla sua biografia e dalle tracce della sua sedimentazione. Un progetto (politico) di urbanità, e non solo un insieme di precetti e regole per ritocchi, ricuciture, piccole e grandi chirurgie senza visione d’insieme.

Luigi Manzione

[Questo scritto, pubblicato in Bloom (trimestrale del dottorato di ricerca in composizione architettonica della facoltà di architettura di Napoli), n. 21, 2014, rielabora alcuni punti di un mio precedente articolo, “La città senza qualità”, in archphoto (marzo 2014): http://www.archphoto.it/archives/2389 ].

[1] Guido Martinotti, “I superluoghi della mobilità”, in Matteo Agnoletto (a cura di), La civiltà dei superluoghi. Notizie dalla metropoli quotidiana, Bologna, Damiani, 2007, pp. 29-34.

[2] Bernardo Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Roma-Bari, Laterza, 2013.

[3] L. Ghirri, Paesaggio italiano, Milano, Electa, 1989; G. Celati, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 1989.

[4] Stefano Boeri, L’Anticittà, Roma-Bari, Laterza, 2011.

[5] Lorenzo Bellicini, “Periferia italiana ‘90”, in L. Bellicini, Richard Ingersoll, Periferia italiana, Roma, Meltemi, 2001, p. 49.

[6] Bernando Secchi, Prima lezione di urbanistica, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 141-142.

[7] Jürgen Habermas, Charles Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2001.

[8] Ripubblicato in http://renzopianog124.com/post/74931428466/il-rammendo-delle-periferie

[9] conrad-bercah, “La retorica del ‘rammendo’”, zeroundicipiù, febbraio 2014 http://www.zeroundicipiu.it/2014/02/26/la-retorica-del-rammendo/

[10] M. Davis, Planets of Slums, Londra-New York, Verso, 2006.

[ph. Luigi Manzione 2014]